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Pietro Polese: l’artista dell’Alpine A110

Trevigiano doc, con la berlinetta francese seppe mettersi in mostra vincendo parecchie gare tra cui la prima edizione del Campagnolo. Al suo attivo anche una 24 Ore di Le Mans con la De Toamso Pantera.

È mancato nelle prime ore di giovedì 16 novembre Pietro Polese, un grande interprete del volante che sulle strade del Campagnolo e del Rally dei Campioni compì imprese straordinarie con la Alpine Renault. Un pilota d’antico stampo. Tanto tenace, vincente e “cattivo” era in prova speciale quanto mite ed educato nella vita di tutti i giorni. Era nato il 30 aprile del 1939, aveva 84 anni. In tanti gli hanno reso l’ultimo saluto a Villorba, nel Trevigiano, dove viveva dopo aver gestito per alcuni anni anche il Rifugio Scarpon sul Monte Grappa. Al fonte battesimale gli avevano imposto il nome Pietro ma per i familiari e gli amici più stretti era Mario. Quando la mamma scoprì di essere ancora in attesa, sognò di mettere al mondo una bambina e di chiamarla Maria perchè i primi erano tutti maschi. Invece nacque un altro figlio che il padre registrò all’anagrafe come Pietro. La madre non s’arrese e cominciò a chiamarlo Mario. Così anche se questo nome non compare in alcun documento ufficiale, per la cerchia più stretta di parenti e conoscenti Pietro è stato solo e semplicemente Mario.

Trevigiano doc, Polese andava forte su qualsiasi terreno anche se preferiva lo sterrato all’asfalto. Era un rallysta abituato alle maratone in auto e a prove speciali una di seguito all’altra. Iniziò la carriera con una Simca 1000, nel 1960, a 21 anni e rimase a lungo fedele alle vetture francesi. Durante il giorno aiutava i suoi nella gestione del ristorante “Al Bassanello”, di sera andava su e giù come un forsennato sulle prese del Montello. Alle porte di Treviso aprì un negozio di mercerie.

Si mise in luce nelle competizioni che si svolgevano sotto casa. Nel Rally del Piave conquistò la prima vittoria. Ne seguirono altre cinque su un totale di dieci partecipazioni. Lasciò la Simca per una più potente Renault R8 Gordini. La prima era equipaggiata col motore di 1150 cc. La vendette dopo qualche uscita per acquistare il modello mosso dal 1300 cc. Grazie all’aiuto della Turbosol e di altre aziende che credettero nelle sue potenzialità, tra le quali la Peg e la Giomo Cucine Componibili, compì il grande salto e si mise al volante di una Alpine Renault A110. La macchina era bassa, filante, potente. Nonostante la leggerezza, sulla terra se la cavava egregiamente e sull’asfalto faceva la differenza. Pietro Polese non ci mise molto per capirne i segreti e impadronirsi della tecnica di guida più redditizia.

Le sue prestazioni non passarono inosservate e il concessionario per l’Italia lo segnalò alla casa madre. Così i tecnici di Dieppe cominciarono a seguirlo con attenzione e a fornirgli materiale di prima mano che Silvio Terrosi, senese con un passato di capofficina alla Giada Corse di Genova, dove s’era fatto le ossa, montava sulla berlinetta rendendola, via via che arrivavano gli aggiornamenti, sempre più cattiva. Con l’Alpine Polese se la intendeva alla grande. Colse diverse vittorie nei più famosi rally nazionali ma quella che lo rese più felice di tutte arrivò proprio nella prima edizione del Campagnolo, andata in scena nell’autunno del 1973, organizzata dalla scuderia Palladio di “Ceo” Filippi con l’appoggio fondamentale di Aci Vicenza.Si capiva a meraviglia con Lino Bonamigo, trevigiano pure lui e prediletto compagno di controsterzi, ma per la prova vicentina chiamò al suo fianco Antonio Pozzan. “Non ho molto tempo per le prove – si giustificò con l’abituale coequipier – e penso che Pozzan potrebbe essermi di aiuto perchè conosce benissimo le strade vicentine.” La scelta si rivelò perfetta. Pozzan lo assecondò dimostrandosi abile tanto con le note quanto con il radar. Soddisfatto dell’esperienza, Polese lo chiamò ancora al suo fianco per altri due rally.

Con Luigi Schenone, invece, vinse il Rally dei Campioni, andato in scena sempre nel Vicentino l’anno successivo, un paio di settimane dopo la seconda edizione del Campagnolo che promosse a pieni voti Giovanni Casarotto. Anche il Rally dei Campioni era stata organizzato da Filippi con l’intento di mettere a confronto i vincitori dei vari gironi in cui erano stati suddivisi i rally nazionali e di assegnare idealmente al primo assoluto la corona tricolore. Per la gara, dai cugini d’Oltralpe arrivarono un motore di 1800 cc e l’autobloccante che Terrosi pazientemente montò sulla A110. Il “trapianto” riuscì senza rigetti e Polese trionfò assicurandosi l’oro. Sfortunatamente non riuscì mai a vincere il Trofeo Rally Nazionali, beffato all’ultimo sempre da Giacomo Pelganta il quale poteva contare sull’appoggio della squadra ufficiale Lancia che gli inviava a supporto piloti del calibro di Amilcare Ballestrieri e Mauro Pregliasco.

“Il più grande era indubbiamente Sandro Munari, inavvicinabile – commentava riferendosi agli avversari dell’epoca – ma io non mi sentivo inferiore agli altri. Affrontati ad armi pari erano tutti alla mia portata.” Non aveva timori reverenziali, Pietro Polese, e quando, chiuso con la Renault che non aveva più interesse a seguire le gare italiane e pur di non perdere i suoi servigi gli propose un programma di raid in Africa, si trovò a sorpresa ingaggiato dalla De Tomaso, dopo un’esperienza con la Stratos. Tramite l’Interauto di Padova, gli fu messa a disposizione una Pantera di oltre 5.000 cc, vettura imponente con tanti di quei cavalli da far impressione ma penalizzata dalle misure, dal peso e dal passo. Gli spettò l’ingrato compito di farla debuttare nei rally. Prima gara la Coppa Mario Dalla Favera, classica d’apertura del calendario, a pochi giorni di distanza dal Monte Carlo. “Con l’Alpine ero abituato a mettere nel serbatoio venti litri di benzina alla volta, per rimanere leggero. Feci così anche con la Pantera e sbagliai clamorosamente. Rimasi a secco in mezzo alla neve. Dovetti attendere che i ragazzi dell’assistenza mi portassero una tanica di scorta.” La Pantera mal s’adattava ai percorsi stretti e sinuosi. Si fermava spesso. Una disperazione .Per non lasciarlo a piedi Alejandro De Tomaso gli propose di disputare gare di velocità su pista. Prima uscita la Mille chilometri del Tirreno, sul circuito di Pergusa. La disputò in coppia con Paolo Bozzetto, a caccia di un nuovo sedile dopo essere stato mandato a spasso dall’Elba Cucine di Bassano che gli aveva spalancato le porte della Formula 2 dopo averlo lanciato in Formula 3. Prove e qualificazioni andarono a meraviglia: sempre primi. E primi furono anche al calare della bandiera a scacchi. Mille chilometri dominati dall’inizio alla fine. Sull’onda del successo siciliano furono iscritti, con Germano Prenol terzo pilota di supporto, alla 24 Ore di Le Mans. “Non ero abituato alle velocità che si raggiungevano nel lunghissimo rettilineo. Bisognava stare molto attenti perchè c’erano due cunette che ti lanciavano in orbita poco prima di un tornantino. Poco alla volta mi adattai anche se la nostra corsa fu spesso interrotta dalle continue soste per il rifornimento. Avevamo un serbatoio da 90 litri ma penso che la Pantera, pur essendo Gruppo 3, non facesse più di un paio di chilometri con un litro di benzina.” La gara finì col ritiro in piena notte, dopo una decina d’ore a tutto gas.

Tra vittorie e piazzamenti prestigiosi Polese ricevette anche il “Pilota d’oro”, simbolico riconoscimento messo in palio dalla rivista “Il Pilota” dove Leo Pittoni, avversario in decine di rally, aveva un ruolo importante come giornalista. Prima di ritirarsi definitivamente dalle gare – ultima uscita nel 1979 – Polese guidò anche la Fiat 131 Abarth. Al suo fianco, per l’occasione, Francesco Rossetti, compagno di Fulvio Bacchelli. L’Alpine Renault è la vettura che più di tutte gli è rimasta nel cuore. “Mi ha dato grande soddisfazioni” disse al momento di appendere il casco al classico chiodo, svelando anche qualche piccolo trucchetto che lo aiutarono a terminare le gare. “Sulla fiche era riportato il cambio a cinque marce. In realtà sulla mia macchina di marce ce n’erano quattro. Il cambio a cinque velocità era molto delicato e spesso mi lasciava in panne. Così con Terrosi decidemmo di affidare ad un congegnatore meccanico la realizzazione di ingranaggi più resistenti alle sollecitazioni e all’usura. Per riuscirci bisognò però maggiorare gli spessori dei materiali. Nella campana del cambio, purtroppo, a causa dell’ingombro aumentato, non ci stavano. Fummo costretti ad eliminare la quinta marcia…” I verificatori non se ne accorsero mai nè ebbero sentore che ci fosse qualcosa di irregolare. “Nel dopo gara smontavano solitamente il motore e si accontentavano di dare un’occhiata esterna al cambio. Era impensabile che un pilota rinunciasse alla quinta marcia.”