,

La magia di Le Mans e del suo museo

porsche 917l larrousse elford

Viaggio nel luogo che raccoglie la storia della gara di durata più famosa al mondo. E dove si rende omaggio al celebre film di Steve McQueen

Un film lungo un secolo. Oppure, storie da ricavarne sequel infiniti. Così tante da capire quanto sia difficile il solo farne un elenco, entrando al Museo della 24 Ore di Le Mans. Credeteci, nessuna metafora che leghi il Motorsport a luoghi di culto sarebbe più centrata, se parliamo delle sale attigue al circuito della Sarthe: un luogo sacro per gli appassionati della storia dell’automobile, dove le più particolari vetture che hanno partecipato alla 24 Ore francese raccontano 100 anni di vicende di gara.

fra1177

Raccontare Le Mans in un film è una parola, dicevamo. Ma qualcuno ci ha provato, e pure con ottimi risultati. L’argomento della cinematografia racing è tornato alle cronache con il recente ingresso nelle sale di “Race for Glory”, che del Motorsport ha voluto raccontare epiche vicende tratte dal mondo dei rallies. E che ha fatto tornare alla memoria altre produzioni più o meno antiche, in tema di eroiche narrazioni di pugna e di guerrieri. Pardon, di gare e di piloti. A proposito della 24 Ore, la più recente è una produzione americana, “Le Mans ’66 – La grande sfida”, con Matt Damon e Christian Bale. Sugli schermi nel 2019 per la regia di James Mangold, la storia è accettabile, pur contenendo i consueti adattamenti – alcuni del tutto inventati – utili a catturare il pubblico ma non la critica “colta” dell’auto. Il film rende molto bene il clima dell’epoca, nella sfida tra Henry Ford con la sua GT 40 e Enzo Ferrari e la sua 330 P3. Piuttosto, sarà stato difficile presentare al pubblico italiano la figura dell’antagonista cattivo: una parte che sarà anche soggetta alle regole della sceneggiatura, ma come si fa a dipingere Lorenzo Bandini a tinte fosche, come se nemmeno fosse Darth Vader?

steve mcqueen

Tra queste opere, la più antica risale al 1971: “Le Mans”, come semplicemente volle intitolarla Steve McQueen. Da appassionato di corse e pilota egli stesso, l’attore americano sublimò il grande amore per il Motorsport in questo film, che risulta più vicino al documentario. Fu una scelta consapevole, per rendere il lavoro più realistico possibile rispetto alla vera competizione, piuttosto che aderente al cliché cinematografico fatto di pupe, amorazzi e tradimenti tra i motori. Obiettivo centrato, nonostante al botteghino se ne parlasse con opposto entusiasmo. Ma, da allora in avanti, nessun ulteriore tentativo di pari argomento è riuscito a colpire i sentimenti dei fans – quelli veri – del Motorsport.

ford gt 40 pierre dumay henri greder ii

E allora, volete davvero farvi trafiggere il cuore, entrando a visitare i sacri luoghi di Le Mans? Presto fatto: nella galleria della 24 Ore che introduce al Museo, a dare il benvenuto tra gli altri personaggi celebri c’è lui, l’innamorato di Le Mans. Steve McQueen, riprodotto in un ingrandimento che lo ritrae in tuta Gulf Porsche, con accanto una teca contenente la locandina del suo film e un ciak cinematografico usato durante le riprese. C’è da dire che fa un certo effetto trovarsi di fronte il vecchio Steve, in modo quasi inatteso (ma mica tanto…), come se fosse lui ad accogliere i visitatori nella sua “vera” casa. E, su questo argomento, chi ama farsi raccontare fatti lontani dal tempo che fu si metta comodo, ché ce ne sono a sufficienza.

locandina le 24 ore di le mans

A proposito di casa: era l’estate del 1970 quando si stava girando “Le Mans”, poco dopo la conclusione della 24 Ore di quell’anno. McQueen dava l’addio al suo focolare domestico, ordinando al suo avvocato di intraprendere la causa di divorzio dall’attrice Neile Adams. E di storie d’amore non voleva sentirne parlare nemmeno nel film che la sua casa di produzione, la Solar Production, era intenta a realizzare. Tanto che dette il benservito anche all’iniziale regista, John Sturges, il quale si era intestardito su una trama da romanzo rosa, con la 24 Ore a fare da sfondo. Invece, l’attore-pilota aveva in mente l’esatto opposto: la ricetta proposta da Sturges poteva evocare “Un uomo, una donna”, tra l’altro venuto anche bene, nello sfondo del Rally Monte-Carlo, ma McQueen non aveva la minima intenzione di produrre un sequel del film di Claude Lelouche, in diversa salsa racing. Perciò, via Sturges, si prosegue con Lee H. Katzin. Sperando di fare abbastanza cassa da pagare le spettanze alla futura ex-moglie. Ma il definitivo il fiasco del film al botteghino porterà solo dolori aggiuntivi.

Le riprese della gara vennero girate “dall’interno”, installando due macchine da presa sulla Porsche 908/2 sulla quale, qualche mese prima, Steve McQueen aveva corso realmente a Sebring, in coppia con Peter Revson. La vettura, iscritta alla 24 Ore dalla Solar Production, fu guidata da Herbert Linge e Jonathan Williams, che non riuscirono a classificarsi a fine gara: fatali furono le soste prolungate, che fecero perdere un 9. posto raggiungibile dalla prima “camera-car” della storia.

Sul set cinematografico, allestito per tre mesi sul circuito noleggiato interamente a questo scopo, l’area da Mulsanne a Arnage era disseminata di Sport-Prototipo noleggiate come “comparse”: Matra-Simca MS650, Chevron B16, Lola T70. Lungo questo tratto si girò la scena dell’incidente di Steve McQueen/Michael Delaney tra le curve Indianapolis e Arnage. Il personaggio del film, rientrato ai box Porsche, incontrerà Lisa Belgetti (l’attrice Elga Andersen), nella trama vedova del pilota Ferrari morto nella gara dell’anno precedente. E poi le protagoniste: Porsche 917, tra le quali una acquistata dalla produzione. Curiosità: nelle cronache dell’epoca, il progettista ingegner Ferry Piech calcolava l’equivalente odierno di 550.000 € come costo della vettura, che però Casa Porsche cedeva a metà prezzo ai team-satellite che la portavano in gara. Squadre come quella del team manager John Wyer, richiamato nella trama dal personaggio di David Townsend, opposto alla figura di Loretto Fuselli, in parodia di Mauro Forghieri. Wyer non ebbe fortuna nella 24 Ore del 1970: non videro il traguardo le vetture di Jo Siffert e Brian Redman, quella di David Hobbs e Mike Hailwood e anche la terza, affidata a Pedro Rodrigues e Leo Kinnunen. Ce ne sarebbe stata una quarta per Steve McQueen, fermamente intenzionato a partecipare alla gara, che avrebbe corso addirittura in coppia con Jackie Stewart. Ma la vettura, regolarmente iscritta dal team inglese, non percorse nemmeno un metro perché le compagnie assicurative americane non ne vollero sapere di coprire i rischi dell’attore. E le Ferrari? Di 512 S ce n’erano, noleggiate tutte dal belga Jacques Swaters. Di fornire collaborazione, offrendo in uso i propri prodotti, Enzo Ferrari non ne volle sentire parlare. Onorando la cronaca, il film si concludeva con la vittoria della Porsche. Perciò, niente pubblicità gratuita agli avversari.

Al Museo di Le Mans ce n’è da rievocare quel periodo, quando il Mondiale Marche (che ancora non si chiamava Endurance) finì per soppiantare la F1 nel gradimento degli appassionati: dagli anni Sessanta, testimoniati dalla Ford GT 40, ai primi anni Settanta, con una imponente Porsche 917 LH in splendida livrea Martini Racing. La stessa che fu guidata da Gerard Larrousse e Vic Elford nella 24 Ore del 1971, donata al Museo dalla Porsche l’anno successivo.

Dall’antico al moderno, fino a metà aprile resta in esposizione al Museo Le Mans la Ferrari 499P trionfatrice nell’edizione del centenario: quella che l’anno scorso, con Alessandro Pier Guidi, James Calado e Antonio Giovinazzi ha riportato il Cavallino in cima al podio della 24 Ore, a cinquant’anni dall’ultima partecipazione e a 58 dall’ultima vittoria, nel 1965 con Jochen Rindt e Masten Gregory sulla 250 LM. Luogo sacro del Motorsport, dicevamo. Di motivi ce n’è a bizzeffe e quest’ultimo, si spera, non sarà l’ultimo per i colori italiani. Ne riparleremo a giugno, con la 24 Ore dell’anno 101.

(Fotografie Press.net Images)